sabato 14 aprile 2012

Dal cassetto dimenticato 3

Anche oggi ho ripescato tra alcuni dei miei vecchi racconti e ho trovato questo. Mi è sempre piaciuto. L'ho letto pensando proprio che "questo è il genere di racconti che vorrei leggere!".
Non so se sarà anche il vostro genere preferito ma, come dico sempre, non è il genere che conta e che fa la differenza, ma se una storia è una bella storia o se è una brutta storia, ma questa... è un'altra storia!
Buona lettura.

COCAINA

Non mi ricordavo perché avevo iniziato. Non lo volevo ricordare. Oramai era cosa fatta, cazzi miei, la vita é mia e me la gestisco io, pensavo. Mi rendevo conto che la stavo gestendo di merda, ma non avevo la forza di dire basta ora smetto, perché purtroppo, mi piaceva. Mi faceva sballare, rendeva possibile a quel fallito del cazzo che ero io di sognare, cosa che non mi era mai riuscita prima. Non volevo dare la colpa a dei fantasmi, non volevo accusare quell’alcolizzato di mio padre o quella puttana da quattro soldi di mia madre. La decisione l’avevo presa io come avevo deciso che la cosa doveva andare avanti così. Non mi ero mai pianto addosso, non avevo mai pensato cosa mi avesse spinto a farne uso perché ritenevo che qualsiasi motivo, dal meno al più grave, non fosse una giustificazione. La realtà é che se ne fai uso é perché sei un debole. Io ero un debole fallito del cazzo.

Quella era una mattina come ne avevo passate tante altre, cioè con il solo pensiero fisso di procurarmi della coca. Mi dovetti scontrare anche con il fatto che ero al verde, quindi decisi di procurarmi qualche spicciolo. Sul come non avevo ancora deciso, pensai che avrei potuto uscire a bordo della mia vecchia spider, in realtà era un maggiolone, un’auto che beveva più di un irlandese, andarmene in giro per la città fino a trovare modo, momento e vittima giusta per recuperare ciò di cui avevo bisogno.

Feci proprio così. Montai sul mio maggiolone e partii verso nessuna direzione. Sentivo le ruote correre dolcemente sull’asfalto mentre il rumore del motore mi accompagnava nel mio viaggio come la musica che usciva da un’autoradio: ce l’avevo prima che qualche figlio di puttana extra comunitario me la rubasse. Continuavo il mio viaggio sfrecciando in una scia colorata, attraverso palazzoni popolari, bar da quattro soldi, locali per finocchi o per lesbiche, grandi e piccoli supermarket, villette a schiera.

Villette con il loro piccolo giardino.

Bingo.

Passai, rallentando, davanti a quelle costruzioni bianche per cercare segni di presenze umane. Dalle finestre intravidi una vecchia seduta in poltrona con una rivista in mano, delle giovani mogli intente a pulire la casa o a preparare il pranzo ai loro figli per il rientro dalla scuola. Al concludersi del piccolo giro di ricognizione contai ben due villette apparentemente libere. La domanda che mi frullava per la testa era: quale delle due ? Avevo le stesse possibilità di trovare qualcuno sia nella prima che nella seconda villetta. Avrei potuto entrare e trovarmi davanti ad un uomo che pochi minuti prima era seduto sulla tavola del cesso, presumibilmente incazzato nero e con qualche oggetto pericoloso per il sottoscritto in mano. Poteva non esserci nessuno. Oppure una poteva essere completamente vuota e l’altra piena di onesti cittadini pronti a farsi giustizia da soli. A o B, testa o croce ? Avevo il 50 e 50.

Parcheggiai in una laterale dalla parte opposta della strada e a qualche villetta di distanza dalla prescelta. Pensai se quella della seconda villetta era stata la scelta giusta e mi consolai dicendomi che nella vita bisogna anche saper rischiare. Dal portabagagli estrassi un piccolo marsupio in pelle nera ricevuto in regalo dalla mia ex fidanzata che conteneva i pochi attrezzi da lavoro. Contemporaneamente raccolsi un pacco con alcuni sacchetti di plastica nera, quelli usati per la raccolta dei rifiuti. Quest’ultimo lo infilai in una delle tasche interne del mio bomber color nero.

Camminai come se niente fosse in direzione della costruzione, apprezzando i dettagli architettonici di quelle a cui passavo di fianco contento soprattutto del fatto che non c’era nessuno stronzo in giro per la strada. Arrivai alla casa. Lanciai degli sguardi prima a destra poi a sinistra. Tutto tranquillo, via libera.

Azione.

Ero già alla porta con in mano una lametta recuperata dal marsupio. La infilai nella serratura. Delle fottutissime gocce di sudore stavano colando giù dalla mia fronte. Non si apriva, quella cazzo di serratura non ne voleva sapere. Muoviti, mi dissi immaginandomi già dentro una cella assieme ad un negro grande e grosso pronto ad incularmi. Cristo Santo, la mia paura non era il carcere e nemmeno la qualità della feccia che ci abitava, ma le violenze sessuali che si commettevano. Se poi davi solo la sensazione di non saperti difendere venivi trattato alla stessa stregua dei froci e forse anche peggio. Cazzo. La serratura non si apriva. Il mio culo, pensai quando finalmente cedette. Click ed ero già dentro richiudendomi la porta alle spalle. Occhi chiusi, spalle appoggiate alla porta, fradicio di sudore ma sollevato dalla convinzione che era fatta. In quel momento sentii una forte fitta al polpaccio della mia gamba destra. Non urlai forse perché la sorpresa era più grande del dolore. Al mio polpaccio si era attaccato con tutta la sua forza un cane lupo nero. Guardandomi rapidamente attorno vidi a me vicino un portaombrelli pieno, non ci pensai due volte e la mia mano si armò con uno rosa a fiorellini azzurrini. Afferrandolo come un bastone colpii con tutta la forza che avevo, cercando, tra una fitta ed un’altra, di centrarlo in testa. Il bastardo non aveva allentato minimamente la presa, i calzoni si erano aperti mostrando ampiamente il polpaccio dilaniato da quell’animale la cui unica colpa era quella di fare il suo lavoro. I suoi denti erano andati ancora più in profondità, stavano per raggiungere l’osso quando colpii ancora una volta sul cranio l’animale. Niente. Il mio sangue bagnava vistosamente il mio carnefice sempre più ostinato a non voler mollare la presa mentre la sua bava dipingeva uno spettacolo orrendo che, se non fossi stato io il protagonista, mi avrebbe portato a vomitare dallo schifo. Sentivo il polpaccio bruciare sempre più e pan, colpii, pan, un altro e un altro ancora. Questa volta lo stronzo sentì il colpo. Colpii violentemente e ripetutamente con tutta la forza mentre sentivo la presa che si allentava, il polpaccio bruciare come se avesse preso fuoco, il sangue del cane divenire affluente del fiume di sangue sgorgante dalla mia ferita. Lo sentivo ansimare mentre si adagiava moribondo al suolo. Da piccolo avevo un cane ma mai avrei pensato che quelle docili bestiole potessero essere così violente. Così cattive. Lo guardavo e i suoi occhi, a cui passava vicino un rivolo di sangue che usciva dal cranio aperto, fissavano me. Chiedevano perché. Presi l’ombrello come si prende una lancia e sfondai il cranio già parzialmente aperto trapassando il cervello in un’esplosione di sangue e materia cerebrale. Poi vomitai.

Ero arrivato al bagno, al secondo piano della villetta, lo stesso in cui vi erano le stanze da letto. Aprii l’armadietto a specchio appeso al muro sopra il rubinetto alla ricerca di qualche benda per medicarmi provvisoriamente la ferita. Trovai del disinfettante che utilizzai con del cotone, un cicatrizzante e della garza con cui rattoppai quello scempio. Fatto ciò presi il pacco che avevo infilato nella tasca del mio bomber, tirai fuori un sacco e feci un giro della casa, dalle stanze da letto fino a ritornare al piano terra, dove c’era il salotto.

Avevo parcheggiato a qualche metro dall’entrata del “Dixie Bar”, dove avevo deciso di andare per incontrare Freddy C.. Soltanto quattro persone lo avevano chiamato così standogli davanti. Non più di qualche ora dopo si erano ritrovati in fondo ad un fiume o sotto una montagna di terra. Freddy C. era il nome che malignamente era stato assegnato a Frederik Cooley, dove la C sta per culo. Le solite voci.

Entrai nel locale, le luci erano molto basse ed incentrate sul palco dove si esibivano i “Black all Jazz”. Al bancone quattro persone, ai tavoli solamente un uomo ed una donna. Freddy C. e la puttana di turno. Mi avvicinai.

Frederik Cooley, uomo, nero, sulla quarantina, altezza 1.83 peso 85 Kg, intento a frugare con la mano sotto la minigonna di pelle della ragazza. In rigoroso completo nero accompagnato dai consueti occhiali scuri che probabilmente si teneva anche quando scopava, mi accennava un sorriso: - Uomo.

- Ciao Fred. Ho qualche cosa che potrebbe interessarti - stavo sudando. Freddy tolse la mano dalle mutandine della puttana. Se mandava la ragazza ad incipriarsi il naso era fatta, se cominciava a farmi i suoi discorsi del cazzo dovevo giocarmela bene. La mano di Freddy saliva verso il viso della ragazza, un viso giovane e dai lineamenti delicati di ragazzina non ancora maggiorenne, fino a fermarsi per accarezzarla: - Si chiama Babette.

Merda.

Fred buttò giù un po’ di birra dalla bottiglia che teneva nell’altra mano. Che cazzo mi avrebbe detto, pensai. Babette aprì bocca: - Ciao.- Una voce da soprano.

- Preferisco quando la apre non per parlare. Vai ad incipriarti il naso, tesoro. - La ragazza si alzò e sculettando vistosamente andò verso la toilette. - Uomo, che cazzo hai ? Hai una faccia da schifo, sudi e puzzi come una capra.

Vaffanculo, l’aveva fatto apposta il bastardo, per farmi cagare nei pantaloni. - Sono a secco e mi servono dei soldi per comprare della neve. Ho un televisore da ventiquattro pollici, un videoregistratore ultimo modello, dei gioielli e un cazzo di vaso che mi sembra di valore.

- Un centone per il tele, cinquanta per il video, i gioielli voglio vederli e il vaso ficcatelo nel culo.

Dovevo tornare alla macchina. - Vado a prendere la roba, ce l’ho in macchina -. Tempo cinque minuti ed ero di nuovo dentro il “Dixie bar” con il sacco in mano. Babette era tornata. Questa volta era lei che frugava nei pantaloni di Freddy C..

Svuotai il sacco dei gioielli e del vaso. A Babette si illuminarono gli occhi. - Che bel vaso - disse. Fred tirò fuori trecento dollari, me li allungò separatamente ad un biglietto da dieci: - Questi sono per il vaso.

Dieci per il vaso, ossia dieci dollari per comprare indirettamente il culo di Babette. - Facciamo trenta - dissi. Presi i miei trecentotrenta dollari e salutai Freddy C. solo dopo aver salutato Babette.

Ero di nuovo in macchina, questa volta con i soldi e stavo già pregustando la sniffata più sofferta della mia vita. Accesi il motore. Niente. Riprovai. Niente. La benzina, pensai mentre controllavo la spia sul cruscotto. Niente benzina. Avevo freddo e stavo continuando a sudare. Sentivo il bisogno di farmi questa fottutissima tirata. Come se non bastasse continuavo a perdere sangue dalla ferita e non potevo comunque andare in un pronto soccorso. Andarci equivaleva costituirsi. Una casa svaligiata ed un cane morto, visibili segni di lotta, per prima cosa gli sbirri avrebbero controllato i pronto soccorsi vicini e le ultime rispettive persone che vi erano state. Merda, almeno un po’ di coca mi avrebbe distratto. Dovevo muovermi, non potevo starmene seduto ad aspettare di morire dissanguato. Provai a scendere dalla macchina, ma sentii cedermi le gambe, la vista mi si annebbiò, le vertigini, il cielo, il sole, la terra.

Il “Dixie bar” era un po’ fuori dalla città e a quell’ora del giorno non ci andava nessuno. Nel parcheggio c’era solo il mio maggiolone e un coupé, probabilmente di Freddy C.. Il sole picchiava come nel deserto e una leggere brezza faceva volare a pochi centimetri dal suolo la polvere della terra battuta che costituiva il parcheggio del “Dixie bar”. Polvere che mi si infilava nella bocca aperta, nel naso, negli occhi e nelle orecchie mentre me ne stavo disteso in mezzo ad una pozza mista di sangue, bava e vomito dovuti alle convulsioni da astinenza e al dolore provocato dall’emorragia interna della ferita. Qualche vettura passava sulla strada a fianco del parcheggio, ma non si fermavano, alcune addirittura rallentavano per poi ripartire. L’ultima auto corrispose all’ultima cosa che vidi.


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